Marketing food sul digital

Il Maketing è da anni in grande crisi, la disciplna non il neologismo che serve per riassumere le capacità di avere successo commerciale. È diventato anacronistico. Non funziona,  è eticamente discutibile. È anacronistico in quanto è una disciplina che nasce in tempi lontani e diversi da quelli attuali, è il braccio armato del consumismo della produzione di massa che deve piazzare sul mercato prodotti. Nel tempo diventa una funzione “meccanica” per gestire  le esigenze di un mercato di massa, i prodotti vanno venduti secondo una routine, seguendo un ciclo di vita.

Il consumatore è sempre più un bersaglio che un amico, le metodologie diventano istituzionalizzate a discapito della creatività. Il modello delle 4P-Prodotto, Prezzo, Place (distribuzione),promozione-. Il marketing mix che indica la combinazione (mix) di variabili controllabili di marketing che le imprese impiegano per raggiungere i propri obiettivi, si basa su consumatori passivi che assorbono tutti gli stimoli delle aziende , mercati in continua espansione con bassa concorrenzialità, nessuna interdpendenza tra le P, ruolo secondario delle insegne distributive (il negozio è un tramite tra azienda e consumatore, non è un attore).

Esattamente il contraio della situazione dei mercati degli ultimi venti anni. Inoltre si ricorda la parola”marketing’e la sua declinazione”markettud’ per indviduare chi lavora nel marketing, ha progressivamente acquisito quella connotazione negativa di piazzare a tutti i costi i prodotti delle aziende piuttosto che soddisfare le esigenze delle persone. Venditori di sogni e di fumo, persuasori occulti, provocatori dell’immagine…

Nel mondo delle esperienze e dei significati di consumo, il marketing è uno strumento spuntato, che non sa dominare né la liquidità né la complessità dei mercati e delle relazioni. Quello che era un approccio uni dimensionale e parziale, dalle 4P in poi si agiva per singole iniziative, diventa un approccio ostico dove è l’insieme dell’ sperienza da considerare e non i suoi aspetti parziali. Tutto concorre alla soddisfazione e all’ apprezzamento dell’sperienza, dal momento del pensiero della stessa all’acquisto, al vissuto, alla sua continuità. Siamo costantemente immersi e attivi in una relazione con aziende e marche, online 24h su 24 in e da ogni luogo.

La nostra esperienza non è solo polisemia ma èanche ricerca polisensoriale di un rapporto individuale unico con le esperienze e di consumo che richiede una continua customizzazione, almeno apparente, dell’approccio alle persone.

Le aziende proprio nel momento di maggior crisi di identità e fatturato si vedono costrette ad innovare senza poter confidare negli strumenti utilizzati fino a ora che sono diventati desueti e inutili. Entra in gioco un approccio nuovo, una disciplina che oltre la sua componente legata all’ estetica delle cose è oggi modello di business delle aziende, molte italiane e di successo, design strategico. In questo caso il design, nella sua principale accezione di filosofo di ricerca di significato delle cose (design-thinking), è la giusta risposta alle esigenze delle aziende di creare vantaggio competitivo attraverso I’innovazione. La forza del design-thnking è proprio quella di trasferire nelle aziende e nelle persone la capacità di immaginare L’nnovazion e ricercare il cambiamento. il design, recuperando l’etimologia latina de-siignare, diviene cosi la disciplina che’ da senso alle cose ° oltre alla loro forma, dialogando però con la funzione tecnologica. La disciplina che lavora sul rinnovamento dei significati delle cose per le persone indipendentemente dal posizionamento di prezzo e dal settore merceologico, lusso o low cost. Il nuovo approccio lavora sia sugli aspetti strategici che sulla capacità di”saper fare’il ritorno alla strategia è un ritorno al pensare prima di fare, al chiarirsi gli obiettivi prima di usare gli strumenti (che non possono essere obiettivi essi stessi), alla cultura di impresa e del singolo rivolta alla creazione di significati sia sociali sia di business. La Parola chiave è ‘koncept’ ovvero la concettualizzazione di idee spesso alternative legate al processo di innovazione parziale o totale di aziende e brand, un nuovo metodo di lavoro che si collega al vecchio concetto di”business idea”di Richard Normann. Quali sono le aziende che usano questo approccio, tanto per essere concreti? Apple, Alessi, Artemide, Kartell, Monocle…

La complessità dell’approccio olistico legato al mercato delle esperienze richiede una squadra unita di culture e competenze per creare vantaggi competitivi durevoli per le aziende la diluizione spazio temporale dell’ esperienza richiede competenze ° on duty”24h su 24 in ogni dove. Le relazioni e gli stimoli sono la linfa di questo processo manageriale.L’azienda è aperta agli altri ed è il centro di un network di relazioni, anche con i concorrenti, dove gli ° altri”sono spesso non addetti ai lavori.

Food Marketing in italia

Food marketing : modello basato sull’esperienza

Si mangia davvero bene in Italia?

Il primo dei luoghi comune , forse il più comune è quello che lo stile alimentare italiano sia inimitabile. Come si mangia qui… la nostra freschezza, genuinità…

I Dati dei ultimi anni sembrano smentire questa teoria : se prendiamo giovani (che sono il nostro futuro) tra gli 8 ed i 14 anni, il 35 % è in sovrappeso ed il 13 è obeso ! Altro che linea alimentare legata alle tradizioni del nostro paese, piuttosto ci stiamo appiattendo su quelle di altre nazioni poca frutta, verdura, pesce e legumi, molta carne salumi, merendine, fritti e bevande gassate. Troppi ” fuori pasto”davanti alla televisione… Salendo con età si stanno perdendo anche le abitudini di pasto tradizionali, la prima colazione ridotta , la cena assunta come pasto e rito principale.

Foodies ed Esperienzialità non sembrano proprio coincidere con il meditemean food style, piuttosto sono una babele di culture alimentari dove qualche cktail di troppo si affianca a pesce crudo, pasta e hamburger. Ma il punto che ci interessa analizzare è piuttosto quello delle aziende che da sempre trmano come un mantra che in Italia esiste una cultura alimentare superiore e nel nostro paese si mangia meglio di qualsiasi altro paese europeo, Gno ad· rivare a dire che a Londra si mangia da schifo, invece di considerarla la capita】e ondiale del food. Questo atteggiamento provinciale è spesso più un sintomo debolezza che di arroganza, il timore di affrontare la realtà infatti, è gusto e che I manager italiani sono quelli che viaggiano meno e conoscono meno le lingue.

Sia come sia, questo atteggiamento delle aziende italiane è da sempre storicamente concentrato sugli aspetti produttivi, sulla presunta ° qualità , sulla desaiziooedelle materie prime uaizzate, sulle ricettq sullbrigine, sulla storia dellazienda sulle linee di produzione. Quante volte ho sentito raccontare che la nostra azienda è nata alla fine dell’800, il trisavolo Mario aveva una macelleria poi ha avuto una intuizione di trasformarla in uno stabilimento di salumi, oggi stagioniamo iprosciutti per 36 mesi, oggi giorno li giriamo da un lato diverso, conosciamo gli animali nome per nome e ci dispiace di doverli macellare anche perché gli diamo da mangiare imboccandoli e di notte gli cantiamo la ninna-nanna.. Ha ti ma romanzato ma verosimile… Ma quando faccio la solita domanda ° perchédok comprare I vostri prodotti? Dove e come li vendete? · L’erede del trisavolo fa scena muta o riattacca con il racconto di famiglia.

Le aziende italiane sono medio piccole, industriali ma padronali, concentrate in distretti produttivi (Parma per salumi, Verona per prodotti da forno ecc) poco orientate mondo dei servizi, attratte ma spaventate dalla finanziarizzazione dei mercati.. Insomma le meno adatte ad affrontare il passaggio dal mondo dei prodotti quello delle esperienze. E ancora di più nel mondo del food la deriva qualità”del prodotto ha frenato Finnovazione sui mercati, come se Ia qualità fosse sufficiente a vendere. Come dico sempre Ia qualità dei prodotti italiani è il prerequisito,

il Dna, il punto di partenza, poi bisogna saperli vendere rispetto ai nuovi significat di consumo, Quindi, Ie strategie commerciali delle poche multinazionali del foo italiane (Barilla, Ferrero. Lavazza) e delle tante medio-piccole aziende sono stadrammaticamente coincidenti Io sviluppo della grande distribuzione dagli anni Novanta in poi ha fatto si che tutti, a pagamento, volessero essere referenziasugli scaffali, promozionati sulle testate di gondola, terzisti di marche commerciali. Erano gli anni della ‘cetp-medizzazione? dell’ Italia, frotte di consumatori affluivano ai centri commerciali dalle province, era il periodo delle partite IVA dei capannoni del Nord · est, della modernizzazione del paese e delle città attraverso Ie portaerei del consumismo, I centri commerciali appunto. Sappiamo come è andata a finire…

Si è parlato per anni di contrapposizione, di conflitto tra marca e grande distribuzione a mente fredda oggi possiamo dire che si è trattato di un matrimonio diinteresse, di una’coliusione”tra chi assicurava volumi di vendita e chi garanti vaprodotti di brand-qualità a prezzi scontati. Lo scaffale svilisce più che esaltare il marchio e Ia qualità, almeno in Italia e nella maggior parte delle insegne.L’horeca non era da meno ci sono aziende che pup di vendere I loro prodottiPer esempio le bevande, finnnT, iavano anche il canale fino a dodici mesi, con un livello di insoluti inimmaginabile ogni bar, ogni chiosco, ognirsingola trattoriaerano obiettivi di vendita, calpestando non solo quelli di immagine del brand.ma appunto anche quelli finanziari. Il risultato è oggetto di questo libro una volta finita la festa, in un mondo di food experience, il canale entra in crisi e si’Uscountizza”mentre le aziende hanno bisogno di intercettare I nuovi stili di consumo.

Estratto dal libro di Carlo Meo  “Food Marketing”

Pubblicato da Mary Ciavotta

Maria Ciavotta è social media marketing manager ed editrice dei siti wdonna.it e piattifacili.com.

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